
(di Giovanni Bevilacqua) «Chiamiamo devozioni le infinite pratiche inventate nei secoli dalla società preindustriale per esorcizzare il male che incombe sulle vite umane, popolando col rimorso e con la paura lo spazio che separa il cielo dalla terra, i vivi dai morti» [Adriano Prosperi, Paure e devozioni, Quodlibet, Macerata 2024, p. 9].
Ci serve come incipit, questo di Prosperi (uno degli autori da me preferiti) per significare dell’abbandono del sacro dalla vita di ognuno di noi. Ci ha abbandonato la paura della morte. Pensate, un tempo venivano costruiti templi dove fosse stato rinvenuto un santino.
Quel Gesù della Piazzetta omonima fa vergogna non solo ai credenti ma alla popolazione tutta. Ci ha abbandonata la paura del cielo, ma non il senso del ridicolo. Il peggior peccato civile (non solo religioso) è la non curanza, la trascuratezza, il lasciar correre, pensando che tanto non importa a nessuno, che tanto nessuno ci fa caso. Quel Crocifisso va curato non perché immagine religiosa che riguarda solo i credenti, quel Crocifisso va curato perché parte del nostro passato, va curato perché è parte della nostra storia, va curato perché anche quando non crediamo in Dio abbiamo il dovere di credere nel prossimo e rispettarne i sentimenti. La santità non ha bisogno della bellezza, ma il bello porta in alto.